Silvio Ferrari ha scritto un libro emozionante, almeno per me. Di poche, ma intense pagine, nelle quali racconta di «comunisti che ho conosciuto da vicino», in un tempo che ho vissuto anch’io. Compagni e amici che ho avuto l’avventura di conoscere quasi tutti a partire dagli anni cinquanta del Novecento, con alcuni dei quali, per nostra fortuna, di tanto in tanto ci frequentiamo ancora.
Si tratta di ricordi autobiografici che l’autore rende, con asciutta e ricercata scrittura, gradevoli e privi di rimpianti. Tuttavia mi pare, insieme a stralci di storia, che dai ricordi traspaia una dolente nostalgia. Sono parecchie le persone intervistate, ma poche se si pensa a quale fenomeno di massa fu il Pci.
Ferrari inizia il racconto con un operaio, Dino Ghio, e termina con un intellettuale, se stesso, protagonista di una vicenda drammatica il cui approdo è spiegabile soltanto perché dei due (forse tre) comunismi che Silvio in gioventù conobbe, uno era italiano. È questa una annotazione non nazionalistica ma storico-politica, che la dice lunga sull’influenza culturale e umana del comunismo italiano.
Piace anche a me, fra i tanti compagni, ricordare l’operaio Ghio, Bel Ami, un proletario cosciente del cantiere navale di Riva Trigoso e segretario della locale sezione del partito. Efficace e veritiero il ritratto che ne fa Ferrari: rude, carico di vigore e solidale umanità popolare che non sempre si manifesta apertamente. Bel Ami era un allievo attento e disciplinato, che aveva conquistato la fiducia di centinaia di operai che lo avevano eletto segretario perché attivo, costante, onesto intellettualmente e moralmente, sempre leale. Un personaggio rappresentativo (con quel suo carattere certo di se stesso) di una costellazione di persone, oso dire di una classe consapevole delle proprie responsabilità politiche e sociali e del ruolo rivoluzionario del partito, nel senso della missione di cambiamento profondo che mirava con realismo a perseguire per il miglioramento della condizione operaia.
Una missione priva di illusioni intellettualistiche, semmai carica di aspettative e speranze sorrette, questo sì, dall’ideologia del socialismo: giustizia, eguaglianza, democrazia, pace e libertà. Tale messaggio era presente in molti militanti, grazie agli ideali e valori antichi del mondo del lavoro, che il Pci, fattosi educatore, diffondeva tra i suoi aderenti.
Ferrari racconta di altre categorie di comunisti. Una di queste è Raimondo Ricci, esponente della piccola borghesia rivierasca, anch’egli entrato – come Ghio – nel Pci in un tempo drammatico (nel ’43) contro il fascismo e l’occupazione tedesca. Bel Ami partigiano sui monti del Tigullio con Virgola, Saetta, Riccio, Marzo, Bisagno, Bini e tanti altri coraggiosi; Raimondo Ricci operante in città, arrestato e deportato nel campo di Mauthausen. Sopravvissuto, al ritorno studia, diventa avvocato del Foro genovese e con Tarello, Tucci, Franzosi ed altri difende partigiani ed operai perseguitati da una magistratura di parte, durante la dura repressione anticomunista degli anni cinquanta. Gelasio Adamoli, che dire di lui se non popolarità e simbolo del Pci. Giordano Bruschi ricorda la lotta della San Giorgio di Sestri Ponente, per salvarla dallo smantellamento trasformandone la produzione di guerra in prodotti di pace. Occupazione dello stabilimento, vertenza lunga 55 giorni, non solo difensiva del posto di lavoro ma propositiva, con un piano industriale del consiglio di gestione predisposto da qualificati tecnici e valenti operai provetti tra i quali emersono alcuni grandi quadri dirigenti, tra cui Morasso e lo stesso Bruschi, sorretti dall’esterno da dirigenti sindacali e politici: Negro, Antolini, Ciardini, protagonisti a loro volta nel ’50, del Congresso nazionale dei consigli di gestione e concluso, se ben ricordo, dal segretario generale della Fiom Giovanni Roveda. È doveroso ricordare quegli operai e tecnici non taylorizzati che sentivano la responsabilità di essere in nuce nuova classe dirigente.
Ferrari accenna all’Ansaldo. Io aggiungo altri protagonisti delle proposte e lotte di quel periodo: Ansaldo San Giorgio, Cantiere navale di Sestri Ponente, Ilva, Bruzzo e quel fenomeno nuovo che fu il Piano Sinigaglia e la siderurgia a ciclo integrale con la Cornigliano Spa, che per certi versi trovò il Pci impreparato. Non posso non ricordare i capi di quella battaglia di difesa del posto di lavoro e del patrimonio industriale genovese: Parodi, Delfino, Bavosi, Gaggero, Albenga e tanti altri. Piero Gambolato di Bolzaneto, allievo della Scuola apprendisti di Calcinara, operaio dell’Ansaldo Meccanico di Sampierdarena, segretario della Fgci e poi della Federazione genovese del Pci, deputato. Renato Boggiato, aristocratico operaio della Marconi, mente fina, dirigente di partito e pubblico amministratore. Sergio Ceravolo, operaio dell’Ansaldo Fossati, intelligente e scaltro, segretario della Federazione. Luigi Castagnola, di famiglia borghese benestante, intelligenza penetrante. Michele Sette, ingegnere dell’Italimpianti figlio di un maniscalco meridionale. Giorgio Doria, nobile e contadino nel feudo di Montaldeo, vicesindaco di Genova, protagonista con Giovanni Spalla, architetto, e Renato Drovandi, ex muratore, del nuovo Piano Regolatore della città portato a compimento dalla Giunta Cerofolini.
Credo di ricordare bene se scrivo che il Pci si sforzò sempre, anche contro la più elementare spinta sindacale, di non difendere l’esistente, ma di innovare sia nella politica industriale che urbanistica. Un esempio fu la difesa delle imprese a partecipazione statale. Forse per qualcuno era una scelta ideologica: per i più, viceversa, nasceva dalla convinzione che solo lo Stato imprenditore avrebbe potuto supplire alle debolezze del capitalismo privato, incapace, dopo i fallimenti degli anni trenta, di reggere alle sfide del mercato, anche se non ancora globale come oggi. Più di uno di noi aveva letto Marx, ma anche Schumpeter. Sembra che la storia, ahimè, ci abbia dato ragione.
Il Pci era un partito, comunista, che mirava al traguardo del socialismo. Ma era riformatore (non si poteva dire riformista) nella sostanza e la tattica di partito era quella della gradualità e della lenta rivoluzione. Credo che anche in virtù di questo suo ideale, per niente gradito a Mosca, in esso potessero convivere e avere un progetto politico comune tante persone del braccio e della mente e di un censo diverso, nel credo filosofico e religioso. D’altronde, per aderire, bastava approvare il programma che dal VIII Congresso in poi, salva la politica estera, era paragonabile a quello dei partiti socialdemocratici europei.
Leggere, studiare, discutere: decidere di agire concordi. Questo era il verbo. Impegno morale, oltre che politico. Oggi, credo che ogni militante di sinistra, pur stanco e deluso che sia, non possa prescindere dal Pd, partito dei progressisti del tempo presente, non del nostro, a meno che non ci si limiti rancorosi a difendere la nostra autobiografia.
Infine, voglio ringraziare Silvio e come presidente di Ames invitare quanti come lui abbiano i ferri del mestiere a fare ricerca storica utilizzando come fonte le biografie dei militanti, per fare della memoria non materia di rimpianto o peggio di rancore, ma un metodo per andare alle fonti limpide, alle radici, della grande pianta del socialismo italiano, affinché oggi, nel nuovo tempo, quello delle nuove generazioni, possa rigermogliare e dare i migliori frutti nella nuova stagione.
Silvano Bozzo*
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S. Ferrari, Fra i comunisti, De Ferrari, Genova 2014, pp. 176, € 12,00.
scheda: www.editorialetipografica.com/sc.asp?ID=2494
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* Presidente Ames